Il sistema sanitario pubblico: un corpo già malato

Il quadro ci viene presentato come emergenziale e dovuto a un’eccezionale pandemia.

Sicuramente la situazione è eccezionale, ma insiste su un corpo già provato da decenni di maltrattamenti e scelte che ne hanno ridotto la capacita’ di resistere. Come ben sappiamo, un’influenza contratta da un corpo sano non ha gli stessi effetti che su un corpo già malato ed indebolito. E il nostro Sistema Sanitario pubblico, sano non lo era di certo. Da giorni si parla infatti, nel caso in cui i contagi non vengano fermati, di collasso del SSN (Sistema Sanitario Nazionale): non ci sono medici ed infermieri sufficienti per fronteggiare l’emergenza, non sono abbastanza i posti letto e le attrezzature in reparti come la terapia intensiva, mancano sufficienti scorte di dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario e non che quotidianamente attraversa le strutture sanitarie.

Ma cosa è successo in questi anni per indebolire il nostro Sistema Sanitario al punto da portarlo a rischio collasso? 

Per scoprirlo dobbiamo tornare al 1978, anno che rappresenta una sorta di spartiacque della storia (non solo in campo sanitario), dividendo un «prima», nel quale si registrava l’espansione del welfare universalistico – tratto comune dei governi liberaldemocratici e socialdemocratici europei – affermando il principio secondo cui alcuni servizi fondamentali, come l’istruzione e la sanità, dovessero essere sottratti ai meccanismi di mercato e quindi essere garantiti dallo Stato, e un «dopo».

Il «dopo» prende le mosse agli inizi degli anni ottanta, con l’elezione di alcuni leader ultra-conservatori – Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979) e Ronald Reagan negli Stati Uniti (1980) – e con l’affermarsi del neoliberismo. Le politiche neoliberiste si applicano anche alla sanità, che diventa terreno di conquista del mercato a livello globale, come si legge in un articolo di The Lancet del 2001: “Negli ultimi due decenni la spinta verso riforme dei sistemi sanitari basate sul mercato si è diffusa in tutto il mondo, da Nord verso Sud, dall’Occidente all’Oriente. Il «modello globale» di sistema sanitario è stato sostenuto dalla Banca mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi e aumentare il finanziamento privato attraverso il pagamento diretto delle prestazioni. […] Questi tentativi di minare alla base i servizi pubblici, da una parte, rappresentano una chiara minaccia all’equità nei paesi con solidi sistemi di welfare in Europa e in Canada, dall’altra costituiscono un pericolo imminente per i fragili sistemi dei paesi con medio e basso reddito

Troppi erano, già allora, gli indizi per non capire quale era la direzione che si voleva far prendere alla sanità italiana: quella del privato e delle assicurazioni. Del resto il messaggio contenuto nella lettera di Trichet e Draghi indirizzata al governo italiano nell’agosto 2011 era inequivocabile: riforme radicali per privatizzare su larga scala servizi e professioni. Quando l’assessore alla sanità della Toscana, senza ombra di rammarico o scusa, afferma “Già oggi tanti si rivolgono a Misericordie e Pubbliche Assistenze per visite e esami (a pagamento ndr) visto che il pubblico espelle dal suo circuito un numero enorme di persone non garantendo la tempestività delle prestazioni”, (La Repubblica, 3 ottobre 2015), il governatore Rossi può dirsi pienamente soddisfatto: missione compiuta. Sono stati adottati provvedimenti che hanno spinto le persone a rivolgersi ai servizi a pagamento anziché ai servizi pubblici, producendo così diseguaglianze, sfiducia, malumore, rabbia.

Negli ultimi 10 anni sono stati soppressi 70 mila posti letto, 759 reparti ospedalieri e molti piccoli ospedali sono stati chiusi (dati Cergas, università Bocconi di Milano). Nello stesso lasso di tempo si registra un taglio di fondi pari a 37 miliardi di euro. In italia ci sono 3.2 posti letto per mille abitanti, contro gli 8 della Germania ed i 6 della Francia. Per la Sanità Pubblica spendiamo 119 miliardi l’anno, il 20% in meno della Francia e il 45% in meno del Regno Unito. Mentre scendeva la spesa pubblica, aumentava quella dei cittadini, che nel 2009 coprivano il 21% del totale e nel 2017 arrivavano a quasi un quarto, il 23,5%: il 46% in più rispetto alla media europea del 16%.

Quasi dovunque le assunzioni sono bloccate di fronte ad una mancanza di circa 56.000 medici e 50.000 infermieri, riportata dalle Regioni. Dal 2009 al 2017 il Ssn ha perso oltre 46 mila unità di personale dipendente (- 6,7%). La riduzione ha interessato i medici (meno 8 mila unità), la cui età media è oggi tale da far prevedere un collocamento in pensione di 2 medici specialistici e 9 medici di famiglia al giorno nei prossimi anni, con ridotte possibilità di ricambio per carenza di laureati e, in particolare, di specializzati. A questo depauperamento ha contribuito non poco l’introduzione del numero chiuso nelle Università e nelle scuole di specializzazione. La contrazione del personale ha riguardato anche gli infermieri (meno 13 mila unità), nonostante la loro presenza sia già molto inferiore al resto d’Europa, in rapporto alla popolazione (5,6 infermieri ogni 1000 abitanti, contro 12,9 della Germania e 10,2 della Francia) e rispetto ai medici (1,4 infermieri ogni medico, contro circa 3 di Francia e Germania). La mancanza di una seria politica del personale sta mettendo in ginocchio l’intero sistema sanitario.

Oggi quasi una famiglia su due rinuncia alle cure a causa delle lunghe liste di attesa nella sanità pubblica e dei costi proibitivi in quella privata. Nel 41,7% dei nuclei familiari, almeno una persona in un anno ha dovuto fare a meno di una prestazione sanitaria. I cittadini inoltre pagano di tasca propria oltre 500 euro procapite all’anno, mentre nell’ultimo anno al 32,6% degli italiani è capitato di pagare prestazioni sanitarie in nero”. (ricerca del Censis).

Le tappe legislative fondamentali che, con le successive riforme, seguono questo percorso pluridecennale sono quattro. La prima è la già citata legge 833, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e la creazione delle Unità Sanitarie Locali. Il secondo è il D.Lgs. n. 502/1992 che avvia la regionalizzazione della Sanità, istituisce le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere e, per rispondere alla crescente pressione finanziaria, introduce «una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria deve essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non può più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni». Il terzo passaggio è il Decreto Legislativo n. 229/1999 (anche noto come riforma Ter) che conferma e rafforza l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituisce i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superano i livelli di assistenza garantiti dal SSN. Infine, con la riforma del Titolo V, Legge Costituzionale n. 3/2001, la tutela della salute diviene materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); Le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie.

Il Ssn non può essere ridotto a una fabbrica di prestazioni. Il Ssn deve tutelare e promuovere la salute delle persone e attrezzarsi per affrontare adeguatamente l’epidemia delle malattie croniche (e della sub-epidemia della multimorbosità). “Nonostante si viva in un mondo dominato dalle patologie croniche, nei luoghi di cura si pratica una medicina quasi esclusivamente per acuti: all’alba del XXI secolo persistono i modelli del XIX secolo”, scrivono R. Rozzini e M. Trabucchi. È necessario per questo un profondo cambiamento.

Un cambio di paradigma basato sulla sanità d’iniziativa: prevenzione e lotta alle diseguaglianze socio-economiche (di malattie croniche si ammalano e ne muoiono molto di più le fasce più disagiate della popolazione), supporto all’auto-cura, presa in carico a lungo termine dei pazienti da parte di team multiprofessionali e multidisciplinari composti da medici di famiglia, infermieri e specialisti, continuità delle cure e più tempo dedicato alla relazione tra professionisti e pazienti, integrazione socio-sanitaria. Il cambio di paradigma richiede un forte rilancio delle cure primarie e dei servizi territoriali.

È il momento di pretendere un Sistema Sanitario che metta nuovamente al centro l’individuo e la salute pubblica, che non si occupi solo dell’acuto ma dello stato di salute inteso come fisico, psichico, sociale ed economico. È il momento per ridisegnare la nostra società in senso comunitario, solidale e mutualistico, dove la salute sia al centro delle scelte politiche per lo sviluppo economico, cosa che fin ora non è mai stata fatta preferendo portare avanti scelte dettate solamente da interessi e profitto. Inquinamento atmosferico, luminoso ed acustico in cambio di urbanizzazione selvaggia o, come nel caso dell’aeroporto della Piana o del TAV, di costruzione di grandi opere inutili; allevamenti intensivi dove l’uso massiccio di antibiotici e la cattiva qualità del mangime sono all’ordine del giorno; industrie e raffinerie che rilasciano tossine nell’acqua o nell’aria appestando le zone limitrofe, come nel caso ormai tristemente noto dell’Ilva di taranto. È il momento di pretendere un Sistema Sanitario incisivo nel denunciare che questo modello economico ci sta rendendo più fragili e più malati.

COSTRUIAMO GLI ANTICORPI AL CORONAVIRUS

Al diffondersi di un virus, lo sappiamo ormai bene, sono gli organismi più deboli, quelli più indifesi, a correre i pericoli maggiori.

Le epidemie più gravi che la storia ricordi sono infatti direttamente collegate a periodi di carestia, di miseria, di guerra.
Il Corona virus non fa eccezione e se oggi la nostra società è in ginocchio è perché essa è resa vulnerabile dalla carestia che prende il nome di crisi economica perenne, dalla miseria intellettuale che ci circonda e dalla guerra ai ceti meno abbienti.

Se il Sistema sanitario nazionale non è in grado di far fronte all’emergenza è perché è stato progressivamente smantellato a vantaggio della sanità privata:
riducendo il personale, tagliando i posti letto, accorpando i presidi sanitari… Quei tagli alla sanità che, è bene ribadirlo, sono figli di una precisa scelta politica che ha derubricato la nostra salute a vantaggio di cose ben più importanti per chi ci governa: oggi apprendiamo con orrore che un solo caccia F35 costa allo stato italiano quanto 7000 ventilatori polmonari.

L’emergenza non è però solo sanitaria, siamo anche in piena emergenza economica. E come poteva non accadere in un paese che la globalizzazione e la nuova suddivisione del mondo in mono aree economiche, ha voluto trasformare in un gigantesco parco giochi per turisti? Ci sono paesi in cui anche i bambini sono costretti ad andare in miniera, altri in cui l’economia ruota interamente intorno alla finanza e altri, come l’Italia, destinati ad accogliere le vacanze dei benestanti di tutto il mondo. Nel nome del profitto si sono svenduti i centri storici, le campagne, i prodotti stessi della terra.. siamo diventati un popolo che direttamente o indirettamente vive di turismo: oggi paghiamo il conto di queste scelte.

Ogni giorno migliaia di persone vengono “lasciate a casa” a causa del corona virus, strozzate per di più da un costo della vita che rimane nella maggior parte dei casi “a misura di turista”. Il conto è reso inoltre ancor più salato dalla più completa inutilità a cui si sono auto relegati i sindacati confederali ormai da anni. Incapaci non solo di pretendere la chiusura dei posti di lavoro, ma anche solo la loro messa in sicurezza, impotenti nel tutelare i precari, i lavoratori in nero, gli assunti nelle cooperative, i lavoratori stagionali…

Ad emergere insieme al contagio è anche la barbarie culturale in cui ormai siamo immersi: chi fino a ieri sembrava disposto ad affogare con le proprie mani chi era in fuga dalla guerra, oggi lo abbiamo visto scappare di notte dalle zone rosse alla volta delle seconde case al mare, con buona pace della salute di tutti. Motore delle azioni più ignobili, dal razzismo verso gli asiatici all’accaparrarsi del materiale sanitario, è la paura. Una paura di cui i primi responsabili sono politici e giornalisti.

Due facce della stessa medaglia il cui obiettivo comune è “vendersi”, certo non tutelarci: i primi per non perdere consensi, i secondi per aumentare le vendite. Una paura alimentata dalla confusione di una classe dirigente che ha mostrato tutta la sua impreparazione e inefficacia, la cui principale risposta è stata sinora quella già testata su ogni tipo di emergenza: l’aumento del controllo e, come dimostra la drammatica vicenda della gestione delle carcere italiane, della repressione.
Questa emergenza ha mostrato chiaramente che non c’è più tempo per chiedere, ora è il momento di pretendere. Pretendere innanzitutto che la nostra salute sia realmente al primo posto e si faccia tutto il possibile per tutelarla, compreso l’esproprio delle cliniche private.

Soprattutto è però il momento di costruire, tutti assieme, quegli anticorpi all’interno della nostra società affinché una situazione del genere non si possa ripetere mai più. Investendo nella sanità, difendendo i lavoratori, organizzando un’informazione libera dalla logica del profitto e del sensazionalismo a tutti i costi, modificando radicalmente il nostro modello economico.

Una cosa deve infatti essere chiara:
NON PAGHEREMO NOI QUESTA ENNESIMA CRISI, non cascheremo nella retorica dei sacrifici per il bene di tutti. I soldi dovranno essere presi dove ci sono, in primis da chi da quest’emergenza sta guadagnando, perché dalle crisi si esce tutti insieme, abbandonando quell’egoismo che si è diffuso nella nostra penisola ancor più velocemente del virus.

Per un Carnevale permanente

– E te a Carnevale quest’anno da cosa ti mascheri?

– Da individuo socialmente accettato! Ah, no, quella è la maschera che indosso tutti i giorni.. allora cambio, mi vesto da.. da quello che vorrei esser sempre.. anzi, travestiamoci tutti da chi siamo realmente: te ti vesti da ladro, te da suora e te da pescatore .. io quasi quasi mi vesto da donna! Che ne pensi?

– Mmmm.. non saprei, sempre maschere sono alla fine.. forse io mi prendo una di quelle classiche invece, un bell’Arlecchino o un bel Pantalone. Di quelle che potrebbe esserci chiunque dietro. Alla fine quando dici chi sei, dici sempre anche cosa non sei e io son stanco di star sempre ad indicare chi sono i “diversi” del momento..

-Se io mi vesto da donna, te ti vesti da filosofo, ho bell’e capito!

-Vabbeh, l’importante è mascherarsi, così quando nessuno ti riconosce.. Tac! Ci infili un bello scherzetto! Sai che il carnevale serviva proprio a questo? Era il giorno in cui i poveracci potevano prendersi qualche rivincita su chi li bistrattava tutto l’anno. Era il giorno del contrario, della sospensione dei divieti e della morale cattolica era il giorno in cui.. “ogni scherzo vale”!

-Eh, bei tempi mi sa.. qua gli scherzetti ce li fanno ma a noi tutti i giorni: un giorno è l’inceneritore a Campi, quell’altro è la nuova pista a Peretola e lo scherzo più bello non gli è ancora riuscito: trasformare il centro in un luna park per turisti e noi persone normali sbatterci tutte in periferia.. vedrai che risate a quel punto!

-E non hai sentito la più bella mi sa, Nardella ha proprosto Firenze per le Olimpiadi! Te l’immagini quanti danni farebbe un evento del genere al nostro territorio? Scava di là, insabbia di qua, cemento più in là.. già, ma tanto qua l’ambiente sembra sempre sia l’ultima delle preoccupazioni.. se continua così vedrai che il dubbio sulle maschere ce lo levan loro.. tutti con la mascherina anti-smog e problema risolto!

-Eh no! Io così non ci voglio finire! Bisognerà pure tornare a contare qualcosa! Tutti questi carnevali in giro per il mondo che finiscono con un bell’incendio del potente di turno fatto di cartapesta qualcosa vorranno pur dire! Non siamo i soli ad essersi stancati.. facciamo qualcosa!

-Ce l’ho! Rispolveriamo i “trionfi” dei Medici, ma sopra al carro invece di Bacco e Arianna ci mettiamo tutti quelli che non ce la fanno più a vedere questo mondo andare alla malora e insieme andiamo.. dove andiamo? Ormai è tutto così confuso che non so neanche più con chi prendermela.. Con Palazzo Vecchio? Con le banche? Con l’Europa? Quale sarebbe il posto giusto secondo te?

-Mah, per quanto casino tu faccia, alla fine sarebbe sempre lo sfogo di un giorno. Te lo lascerebbero fare e poi tutto tornerebbe come prima. Alla fine era proprio questo il senso del Carnevale, il caos di un giorno da cui far ripartire un nuovo, vecchio, ordine.

-Hai ragione, mi sa tanto che ci vorrebbe allora un Carnevale permanente! Io ci starei, son sincero!

-Anche io ci starei! Forza amico mio, sentiamo un po’ in giro se l’idea piace anche agli altri, magari è così che deve iniziare un Carnevale permanente, da una chiacchiera tra amici, stanchi di girarsi dall’altra parte.

R/esistenze

R/esistenze ovvero:

uscire dall’imbarazzo di avere solo risposte sbagliate alla domanda che più frequentemente ci viene posta: “Perché siete sempre a scazzare tra voi? Perché non riuscite mai a fare le cose insieme?”.

 

MUTUO SOCCORSO COME BASE MINIMA DI RIORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO

R/esistenze nasce come rete cittadina di mutuo soccorso in difesa delle autogestioni del nostro territorio. La facile obiezione per cui non serve certo un’assemblea a cadenza regolare per portare solidarietà ai compagni colpiti dalla repressione ha trovato nella pratica la sua smentita. Poter analizzare e organizzare collettivamente le risposte agli attacchi della controparte, oltre ad un maggiore livello di efficienza e di attivazione basata sulla semplice affermazione: “se toccano uno toccano tutti”, ci consegna la precisa sensazione di non star difendendo degli amici un po’ strani, ma di star difendendo noi stessi. Se non è certo dimostrabile che questo cambio di paradigma, con le implicazioni che esso comporta, possa svolgere un effetto deterrente verso chirurgiche operazioni di polizia, in particolare verso i tanti collettivi che insistono su degli spazi occupati, ci pare invece certo che la costruzione di questo “noi” sia il primo passo per uscire dall’impotenza in cui sembra relegato il movimento italiano. Un “noi” in divenire che trova al momento la sua maggiore dimensione identitaria nell’autogestione vista e vissuta non solo come mezzo, ma anche come fine della lotta stessa.

SE SONO I NOSTRI COMPORTAMENTI AD AVERCI CONDOTTI SIN QUI (LEGGI: L’ATTUALE CATASTROFE DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO), BENE, ALLORA CAMBIAMO I NOSTRI COMPORTAMENTI

La fase politica attuale non arride certo a un mutamento in direzione rivoluzionaria dell’esistente, negarlo o non porre tale ovvietà al centro del dibattito politico è parte del problema. Indagare le cause esterne al movimento dell’attuale situazione socio-politica italiana non può essere il paravento dietro cui nascondere quelli che non dobbiamo aver paura di chiamare i nostri errori ormai congeniti. Della necessità di distruggere i nostri automatismi militanti è dunque ciò di cui dobbiamo prendere coscienza. L’automatismo più tossico, di cui troppo raramente siamo consapevoli, è il guardare alla crescita della propria realtà come alla crescita del movimento e il faticare degli altri gruppi come ad un’occasione per guadagnare terreno, per far acquisire più forza alla nostra posizione. Nulla di più sbagliato: tanto il capitale che gli sfruttati che quotidianamente ci camminano a fianco se ne fregano bellamente delle nostre litigiose posizioni. Possiamo continuare a comportarci come i capponi di Renzo, appagando la nostra presunzione militante in attesa del boia, o approdare a quella conclusione che, senza scomodare Ockham e il suo rasoio, la più svampita delle nostre nonne potrebbe consigliarci: il principio per cui “l’unione fa la forza”. Ciò non significa appianare le differenze, anche ideologiche, che costituiscono la reale ricchezza del movimento italiano, significa discutere assieme della pratica più efficiente in relazione all’obiettivo comune che ci poniamo.

LA MIGLIOR DIFESA E’ L’ATTACCO, IL MIGLIOR ATTACCO E’ CONGIUNTO

Lo sappiamo da tempo: non ci si difende dalla minaccia di uno sgombero rinchiudendosi dentro uno spazio e cercando di “infastidire” il meno possibile la controparte, al contrario la barricata più resistente che possiamo costruire è fatta dalle relazioni che riusciamo ad intessere con il territorio e dalle lotte che in esso e con esso riusciamo a portare avanti. Il meccanismo è il medesimo per qualsiasi dinamica di autogestione. Non nasce però certo da una volontà di difesa dell’esistente il nostro desiderio di passare all’attacco, di divenire sempre più incisivi, ma dalla consapevollezza che proprio l’autogestione sia la bussola per orientarsi nel percorso verso un nuovo modello economico e sociale, verso un nuovo modo di vivere. Proprio la costruzione di quel “noi” condiviso fa emergere come sua naturale conseguenza il desiderio di attivare mobilitazioni tanto più forti quanto più organizzate in concerto. Uno spazio perennemente aperto di confronto tra realtà consente inoltre dei tempi incredibilmente più snelli di reazione di fronte alle situazioni di emergenza che sempre più spesso ci troviamo ad affrontare. Una volta individuate tematiche comuni sono però anche le singole mobilitazioni delle realtà ad uscirne rafforzate. Pensiamo alla lotta alla gentrificazione: pur portata avanti autonomamente e con i mezzi che preferisce da una realtà sul proprio territorio, questa esce enormente potenziata dalla relazione con lotte simili, attraverso strumenti come calendari e parole d’ordine comuni, contatti con esperti e tecnici, ricondivisione sui social di analisi e iniziative, ecc. L’assemblea ha dunque l’obiettivo di divenire percebile all’esterno non come l’ennesimo impegno per cui il tempo non si trova mai, ma l’esatto opposto: R/esistenze come capacità di risposta immediata e come moltiplicatore di visibilità ed energie.

CHIARI I MERITI, SI TRATTA ORA DI ENTRARE NEL MERITO

Le differenze tra realtà diverse permangono, ma solo ad un’analisi superficiale rappresentano lo scoglio contro cui questa nave inevitabilmente dovrà naufragare. Conosciamo bene le assemblee cittadine: ogni realtà si presenta con la sua posizione che deve far passare ad ogni costo, ricorrendo anche alle armi più bieche della politica. Mediare, ridiscutere, valutare le diverse anime e sensibilità.. insomma, modificare il proprio pensiero, non è possibile neanche volendolo, pena la scomunica da parte dell’assemblea di riferimento che non è presente in toto all’assemblea e non può essere aggiornata in tempo reale. Queste assemblee non possono che divenire momenti di ratifica di decisioni già prese altrove da chi può o vuole fare la voce più grossa. Questo modello basato su una logica egemonica è esattamente ciò a cui non vogliamo tendere. Tutti i partecipanti all’assemblea di Resistenze hanno il potere di decidere, in dialettica con gli altri. Le valutazioni fatte dalle singole realtà sono importanti tracce cui tener di conto, ma non hanno potere vincolante. Non andando a modificare i percorsi già avviati dalle singole realtà, ma organizzandone di nuovi, l’assemblea di R/esistenze nelle sue decioni valorizza le energie spese e il tempo dedicato al progetto. Questo non vuol dire essere escludenti, tutt’altro: significa che qualsiasi gruppo può partecipare a R/esistenze con la modalità che preferisce, da una presenza generale, ma saltuaria, fino all’attivazione su un’unica e specifica lotta. Questo però senza stravolgere o piegare ai propri fini personalistici l’intera assemblea. Lo sforzo, a cui non siamo abituati, è partecipare a R/esistenze cercando di capire assieme qual è la cosa migliore per l’intera assemblea, senza fughe in avanti, ma senza frenate controproducenti. La libera scelta dei partecipanti della modalità con cui contribuire all’assembea e del carico di impegni assumibile permette inoltre di fugare qualsiasi dubbio sull’ipotesi di un coordinamento che vada a sovradeterminare le singole assemblee. Questo metodo decisionale ha inoltre un altro vantaggio in quanto non preclude ai singoli la partecipazione all’assemblea: non solo perchè sappiamo bene di aver bisogno dell’ingegno, la forza e l’entusiasmo di ciascuno, ma anche perchè permette di intercettare chi vuole attivarsi su una specifica mobilitazione, senza il carico di partire da una di quelle posizioni identitarie che volenti o nolenti ogni realtà si porta dietro.

OSARE

Il tentativo sin qui descritto è quello di dar voce e opportunità di intervento alle più varie e disperse energie: smettere di pensare soltanto ad accumulare forza e cominciare ad usarla, unire quelle gocce che soltanto assieme possono diventar tempesta. Dotarsi di un immaginario comune che possa risultare appetibile e che sia reso tangibile attraverso strumenti condivisi come il calendario online de “La punta”, il blog, radio Wonbat, odg pubblici.. Divenire una forza che riesca realmente ad incidere nelle dinamiche cittadine, un’assemblea di agitazione permanente che se vincente possa divenire un modello riproducibile altrove.